Di cosa parliamo quando parliamo di Mindfulness? Perché dovremmo praticarla? Come può cambiare la nostra vita?
Credo che chiunque si sia avvicinato alla Mindfulness, o ne abbia sentito parlare, non abbia potuto fare a meno di farsi queste domande.
Da quando il protocollo MBSR per la riduzione dello stress (Mindfulness Based Stress Reduction) è nato nel 1979 ad opera di Jon Kabat-Zinn, il sistema è stato provato e riprovato migliaia di volte. Solo negli Stati Uniti, qualcosa come 24mila persone hanno seguito il corso di 8 settimane, traendone grandi benefici.
Nato come percorso da offrire in ospedale, presso la Medical School dell’Università del Massachusetts per gruppi di persone con problemi di dolore cronico, la Mindfulness si è guadagnata piano piano un “pubblico” di praticanti molto eterogeneo: dai bambini a scuola, agli adolescenti, agli adulti.
Io l’ho incontrata qualche anno fa, mentre frequentavo un corso di studi buddhisti, presso il centro Motus Mundi di Padova (affiliato al Center for Mindfulness dell’Università del Massachusetts), dove dopo poco ho iniziato il percorso di formazione.
L’intera catastrofe
Il “dolore” cui si guarda in faccia quando si decide di intraprendere un percorso di consapevolezza come questo è la sofferenza che ciascuno di noi sperimenta nella vita quotidiana.
Magari ci sentiamo stanchi e demotivati, e a volte ci chiediamo cosa stiamo facendo, mentre corriamo dietro agli impegni e alle scadenze. Una vita fitta di cose da fare – e di ruoli da interpretare: i genitori, gli impiegati precisi e puntuali, quelli che sanno risolvere i problemi, quelli che corrono quando c’è bisogno, quelli che hanno le soluzioni, quelli che resistono.
E strada facendo, ci sembra che le cose da fare, invece di diminuire, crescano.
A me per esempio, a volte sembra di fare un passo avanti e due (o tre!) indietro. Mi sembra di aver risolto qualcosa e invece mi volto, e dall’altra parte, qualcos’altro si rompe, qualcosa cede, qualcosa non funziona più; e spesso è difficile trovare le risorse giuste per affrontare quel che succede.
A volte la nostra sofferenza è proprio fisica: una parte del nostro organismo non funziona come vorremmo; abbiamo il mal di testa cronico, la gastrite, la colite o dormiamo male. E sappiamo che l’ennesima pastiglia non risolverà granché, ma la prendiamo lo stesso.
A volte abbiamo così tante cose per la testa, o siamo così preoccupati di quel che sarà, che non riusciamo mai a rilassarci. Quando siamo in questo stato d’animo, ci sentiamo perennemente in competizione: con noi stessi, con i colleghi, con gli altri; tanto da considerarci sempre in difetto o mancanti di qualche capacità che non riusciamo a sviluppare come vorremmo.
A volte la nostra sofferenza viene dalle nostre relazioni: in particolare con le persone a cui vogliamo bene e a cui siamo legati, qualcuno che non ci capisce, o non ci ascolta; qualcuno che noi non riusciamo a capire o a perdonare.
E poi le relazioni del nostro ambiente di lavoro, che ci fanno masticare rabbia o frustrazione.
E il tempo per noi, dov’è? Cosa rimane per fare quello che ci piace, quello che ci rende davvero felici e ci fa brillare gli occhi?
Con quali energie affrontare la giornata, che ci sembra una montagna da scalare?
Perché pensare che potremmo essere felici solo se … se si dovessero realizzare determinate condizioni, o solo quando saremo liberi da questo lavoro che ci divora, o da questa relazione nella quale non riusciamo più a sentirci noi stessi.
“E anche se non leggiamo i giornali e non guardiamo la televisione, la catastrofe del vivere ci è sempre accanto. Si manifesta nelle pressioni a cui siamo sottoposti a casa e sul lavoro, nei problemi e nelle frustrazioni che incontriamo, negli equilibrismi che ci sono richiesti per sopravvivere in questo mondo frenetico e competitivo. Possiamo includere (…) oltre alla moglie e al marito, alla casa e ai bambini, il lavoro, i conti da pagare, i genitori, gli amanti, i suoceri, la morte, la povertà, la malattia, gli incidenti, le ingiustizie, la rabbia, i sensi di colpa, la paura, la disonestà, la confusione e così via. La lista delle situazioni stressanti è interminabile”. (Vivere momento per momento, Jon Kabat Zinn).
E dunque: come ci può aiutare la Mindfulness?
Sedersi e fare pratica è la cosa più potente che io conosco per affrontare tutto quello che ci accade, “l’intera catastrofe”, come la chiama Jon Kabat-Zinn, e trarne tutto il meglio che posso e riesco, con quello che sono in questo momento.
Stare davanti alla mia vita senza voltare la testa, senza arrendermi, senza fare la guerra, ma soltanto osservando i miei pensieri, le mie emozioni, le mie sensazioni corporee.
Sembra strano – o impossibile – invece è così. Ma non bisogna crederci per forza, bisogna provare. Nella mia esperienza, la meditazione è il luogo in cui i nodi vengono al pettine e noi incontriamo noi stessi, con gentilezza e pazienza. E finalmente, ad un certo punto, possiamo concederci di rilassarci, di lasciare andare.
In quali modi fa bene la Mindfulness?
Dal 1979 a oggi, gli studi neuroscientifici si sono moltiplicati. E hanno evidenziato una serie incredibile di benefici su tutto il nostro sistema corpo-mente che si fa fatica ad elencare (be’ un elenco lo trovate nella pagina Mindfulness di questo sito).
Su PubMed, il motore di ricerca di articoli scientifici del mondo, il termine ‘mindfulness’ e affini è presente in più di 4500 pubblicazioni scientifiche e in circa 9000 articoli.
Questa attenzione da parte del mondo scientifico è dovuta ad una serie di risultati positivi della Mindfulness applicata in questi anni per la cura di diversi “disagi” – sia fisici, sia psicologici.
Provo a riassumere: la Mindfulness ha effetti positivi sui livelli di ansia e stress: l’abbassamento del livello di stress percepito è in relazione, dal punto di vista biologico, ad una riduzione della densità di materia grigia dell’amigdala, area cerebrale che gestisce le emozioni e che si attiva in situazioni di stress. Oltre a questo, gli studi confermano anche una riduzione del cortisolo, cosiddetto ormone dello stress.
Un’altra area di ricerca si è dedicata a studiare la neuro-plasticità – ovvero la capacità della mente di modificare il cervello – e i meccanismi neurali che sono coinvolti nella pratica della Mindfulness.
Dato che “i neuroni che si attivano insieme, si legano tra loro” (Hebb, 1949, in Siegel, 2007) si è evidenziato come l’attività mentale della meditazione attivi specifiche aree del cervello: per esempio, dopo un certo periodo di pratica meditativa, le aree associate all’introspezione e all’attenzione diventano più spesse, provocando un aumento della concentrazione di materia grigia nell’area sinistra dell’ippocampo, nella corteccia cingolata posteriore, nell’area temporo-parietale, nel cervelletto.
Diversi studi hanno dimostrato un miglioramento delle capacità cognitive e attentive – e mentre migliora l’attenzione e la concentrazione, si sviluppano anche pazienza, gentilezza, empatia. Sostanzialmente migliora molto la capacità di autoregolazione emotiva, sia negli adulti che nei bambini.
La Midfulness è utile nei pazienti con problemi di disturbi d’ansia e di depressione; è efficace sull’insonnia e sul senso di spossatezza. Migliora la percezione del dolore – cosa che risulta molto utile nei pazienti con dolori cronici.
È utile per abbassare la pressione e potenziare il sistema immunitario, oltre che in tutti i casi di problemi infiammatori. Alcuni studi specifici hanno evidenziato una riduzione dei livelli di Interleukina-6, un marker biologico associato a malattie infiammatorie come il cancro, l’Alzheimer e le malattie autoimmuni.
Insomma, la scienza moderna ci conferma quello che 2500 anni fa, molto più a oriente, era apparso già molto chiaro: la mente ha la capacità di guarirci. E forse possiamo cercare di capire se questo può essere vero anche per noi e se questa scoperta ci può essere utile per essere meno stressati e più felici.