Tornare a casa

C’è un filo
Il titolo di questo post allude ad una partenza, che implica anche un ritorno, per forza di cose. Ma la mia partenza è un ritorno, e il mio ritorno un po’ una partenza, come in un gioco di specchi.
Quest’anno, dopo qualche anno di assenza, sono tornata in India. Ho iniziato a conoscerla a 14 anni, nel corso di uno dei dei viaggi che ho avuto la fortuna di fare con i miei genitori. A vent’anni ho deciso di studiare all’Università la sua cultura e le sue lingue, il ché mi ha fornito abbondanti giustificazioni per tornarci quasi ogni anno.
Ma la verità è che quando ci si riconosce (noi e “l’altro”), nasce una relazione – un comunione – che resiste al tempo e non viene scalfita dalla lontananza.
Io e l’India siamo lontane, almeno dal punto di vista dello spazio fisico, ma non lo siamo mai state da tutti gli altri punti di vista.
E una delle cose che questa relazione mi ha insegnato è che lo spazio fisico tra me e l’altro, la lontananza, è importante, ma non fondamentale. Può generare attesa e senso di nostalgia, ma questo non impedisce di continuare ad amare ciò che non si può fare a meno di riconoscere come parte di sé.
Quando ci si riconosce, accade una specie di piccola magia: il filo si riannoda e si può continuare a seguirlo, sentire che dà senso e spessore alla nostra vita fintanto che lo si segue, senza sapere esattamente dove ci porta, quali strade ci rivela, che paesaggi illumina, o quali persone ci farà incontrare. Chiede la disponibilità ad affidarsi a ciò che ancora non conosciamo, che solo intravediamo, ma che sentiamo essere autentico per noi. Chiede coraggio e curiosità a seguire le sue curve, le salite e le discese, come in una danza a due, dove solo quando ci affidiamo al passo, al movimento, questi si rivelano.

Così è

C’è un filo, che scorre. Scorre in mezzo
alle cose che cambiano. Ma lui, non cambia.
La gente si chiede cosa tu stia seguendo.
a loro dovrai spiegare che cos’è questo filo.
Ma è difficile per gli altri comprendere.
Quando lo tieni stretto non puoi perderti.
Le tragedie accadono; le persone soffrono
o muoiono; e anche tu soffri e invecchi.
Niente di ciò che fai può impedire al tempo di dispiegarsi.
Ma tu, non lasciare mai andare il filo che scorre.

~ William Stafford ~

Il viaggio di ritorno
Tornare “a casa” è un viaggio faticoso, potenzialmente pericoloso. Siamo stati via per tanto tempo, abbiamo sentito la nostalgia e ricordato atmosfere e momenti indimenticabili.
Ora decidiamo di incamminarci e lo facciamo senza nessuna certezza, ma sull’onda di una fiducia luminosa. “I viaggi di ritorno sono misteriosi e paradossali. Partiamo da casa e ritorniamo a casa, compiendo un intero giro. Uno potrebbe giustamente domandarsi: che senso ha tale viaggio? A che serve partire se poi non si fa altro che tornare al punto di partenza? Ma questo vagare, difficile e circolare, ha un senso, (perché) quando torniamo noi siamo diversi, e diverso e più profondo è il modo in cui apprezziamo ciò che è ed è sempre stata la nostra vita (…) Il vero viaggio non è quello verso qualche luogo nuovo, ma semplicemente quello che ci riporta a casa, alla nostra natura innata” (da Tornare a casa di Norman Fischer). Da Ulisse in poi, passando per i miei viaggi in India, per approdare al Grande Viaggio della pratica di consapevolezza.

Non puoi più nasconderti
Quando sei nato non puoi più nasconderti – recita il titolo di un libro e anche di un film. E in India è più vero che mai, è un concetto solido, lo tocchi con mano.
Quando sei in India, non puoi più nasconderti; non c’è un posto dove puoi voltarti per non vedere la realtà di quello che ti circonda. Devi prenderlo così come è, il pacchetto del viaggio che stai facendo, tutto intero, senza esclusioni.
Non puoi metterti a scartare, perché la realtà è quella che è, comprese le fogne a cielo aperto, i fiori di gelsomino, i cani randagi, la seta dei vestiti delle donne, la puzza e la polvere, i sorrisi, il traffico, i tempietti negli spartitraffico, le mucche, le scimmie, il caos, i clacson, la bellezza senza mezze misure che ti circonda. Tutto in piena faccia.
Quel che è così come è. Non c’è un posto in cui scappare o evitare; dal momento che metti piede qui, non si torna indietro e non c’è modo di controllare questo universo incredibile addomesticandolo a modo tuo.
Perciò dico che l’India è una specie di pratica di consapevolezza di accettazione e amore, che riesci a sviluppare imparando a “surfare” sulle onde di questa realtà bellissima e paradossale che ti investe come un treno.

Impermanenza
L’India mi insegna la mia impermanenza e la fondamentale illusione di un’identità precisa. Quando prendo un aereo per andare dall’altra parte del mondo faccio tanta fatica a rilassarmi in quel volo paradossale; capisco (il mio corpo sente) quanto chiaramente sia fragile, quanto è facile morire, quanto la mia identità è impermanente e priva di una vera solidità.
Chiusa in questo aereo che vola in base a principi della fisica che nemmeno conosco, non mi conosce nessuno, e io stessa non conosco chi mi siede accanto. Siamo simili e interconnessi, eppure universi lontani, che cause e condizioni diverse hanno portato qui, seduti su questo sedile.
Sorvolo il deserto e l’oceano e mi pare un miracolo autentico non dissolvermi nel cielo, non polverizzarmi, non sparire. Partire è un po’ morire, dice La canzone dell’addio. Morire è rinascere.
Namasté.