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Praticare con le emozioni difficili
Ebbene sì, anche io ho emozioni difficili: mi arrabbio, perdo la pazienza, mi rattristo o sono confusa. Mi è capitato di parlarne con più di una persona per cercare di chiarire l’equivoco, anche chi fa Mindfulness prova rabbia, tristezza, confusione. Nessuno è immune dal provare emozioni, e non è neppure un obiettivo della Mindfulness il fatto di isolarci in un luogo privo di un sentire.
Non è che, dal momento che pratichiamo la consapevolezza, non siamo più toccati dalla crudezza e dalle difficoltà del vivere.
È uno degli equivoci più comuni: se faccio Mindfulness (o se la “insegno”) non sono più soggetta alle emozioni. Le emozioni difficili non mi toccano più, divento un essere superiore – indifferente a ciò che gli accade – con il sorriso stampato in faccia.
Non è così! Quando facciamo Mindfulness coltiviamo la capacità di accorgerci delle emozioni, non di evitarle o spazzarle via come in un incantesimo, comprese quelle che ci piacciono di meno.
Questa credenza si innesta forse nella convinzione che ci siano persone o stati d’animo “migliori”, che le cose così come sono non funzionano e vanno aggiustate. Che la Mindfulness dia le chiavi per la felicità e per una vita priva di inciampi, crolli, imprevisti.
Di nuovo, non è così! La Mindfulness ci aiuta a riconoscere il nostro stato d’animo in modo gentile e non giudicante.
Ci aiuta a sentire che sto per arrabbiarmi, e me ne accorgo perché sento una sensazione di agitazione nello stomaco, il cuore batte più veloce e sto stringendo i denti, per esempio.
Sto per rovesciare queste sensazioni spiacevoli addosso a chi mi sta di fronte (così forse mi calmerò e non sentirò più quello che sento ora) e sto per farlo inscenando uno dei miei teatrini consueti: quella che ha ragione oppure quell’altra che si sente la vittima della situazione.
In genere – facciamoci caso – sosteniamo questa commedia con un dialogo ben confezionato in cui io dico una cosa (giusta, ovviamente) e l’altro non può far altro che soccombere sotto il peso della mia “ragione”. Insomma, c’è da divertirsi!
Se riesco ad accorgermi che sto per reagire in questo modo – e magari faccio un bel respiro profondo, sentendo l’aria che mi attraversa, rimanendo in contatto con le sensazioni e la fanfara che sta per iniziare la sua “ouverture”- forse posso trattenermi dal far partire la sceneggiata.
E poi, cosa succede?
Ma, una volta riconosciute le emozioni e tutto il teatro che abbiamo montato attorno alla faccenda, non è neppure detto che riusciremo di trattenerle e a indagarle. Può darsi che invece il caro vecchio ospite “con il cappotto polveroso” (come un mio amico chiama l’ego) – o quello che nel buddhismo viene chiamato shenpa (l’afferrarsi al sé), entri in azione più veloce che mai.
Una caratteristica del meccanismo fight or flight (qui è la scienza che gli dà un nome ulteriore) è la velocità. La struttura di attacco o fuga/ego/shenpa è veloce e sicura di sé. È sicura di sé perché ha alle spalle un’esperienza tanto lunga quanto la nostra età, dato che molto spesso agiamo portati dalle nostre abitudini e dai nostri “sono fatto così”.
Non solo, ha dalla sua parte anche l’abitudine alla reazione automatica di tutta l’umanità, dall’inizio della nostra storia. E non è poco.
Non siamo fatti solo delle nostre individuali esperienze; abbiamo in conto anche quelle dei nostri genitori, della nostra famiglia e della società in cui siamo cresciuti.
Perciò è comprensibile che la pratica di accorgerci e poi di trattenerci dal reagire in automatico sia una pratica che si sviluppa lentamente e che richiede un po’ di tempo per essere digerita e portata nel quotidiano.
E se non funziona?
Può darsi dunque che non facciamo in tempo a notare e a trattenere i nostri automatismi. Accade quindi che ci arrabbiamo, ci deprimiamo o facciamo le vittime, ciascuno secondo il proprio personaggio abituale.
Niente paura; la Mindfulness ci aiuta, come prima cosa, a non biasimarci necessariamente per quello che non siamo stati in grado di evitare. Giudicarci non servirebbe che a farci soffrire ulteriormente per qualcosa che è già accaduto, concluso, e perciò impossibile da cambiare. La Mindfulness ci aiuta a non rimuginare troppo su quello che non possiamo cambiare; ci aiuta invece a recuperare, a rispondere in modo utile e fresco.
Possiamo perciò riparare sentendo il rimorso (che è ben diverso dal paralizzante senso di colpa), impegnarci a non fare più quello che abbiamo fatto o detto, e chiedere scusa.
A noi stessi – se ci siamo fatti male da soli – oppure agli altri, se abbiamo ferito qualcun altro. Ogni volta che inspiriamo, si dice durante la pratica formale, siamo nuovi, vivi e interi. Siamo in grado di ricominciare, di ripartire da zero, o da dove ci troviamo, con l’energia necessaria per ricostruire ciò che è crollato, abbracciare ciò che ha bisogno di conforto, stare con la nostra esperienza nuda e cruda.
Anche con le esperienze che vorremmo evitare, perché spesso è proprio dalle crepe che entra la luce.