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Come posso accettare tutta questa storia? Come si fa a non farsi prendere dalla rabbia, dal senso di sconforto e di ingiustizia?
Come posso rimanere sereno di fronte a quello che sta succedendo e non deprimermi?
Chissà quante volte te lo sarai detto, chissà con quale stato d’animo…
È pane quotidiano in tempo di lockdown-quasi-fase-2, e credo possa esserlo sempre, solo che adesso lo stiamo vivendo in modo accelerato, perché siamo tutti insieme dentro “l’intera catastrofe” di cui parlava Jon Kabat-Zinn; oltre alle eventuali piccole grandi catastrofi personali, parallele e sovrapposte.
Mi capita spesso di parlare di questo argomento durante le classi di Mindfulness e ogni volta per ciascuno di noi è importante riascoltare ancora e ancora cosa vuol dire davvero la parola “accettazione”, che sembra tanto difficile da accettare – scusa il giro di parole – e che così spesso viene confusa con tanto altro.
Come funziona la mente quando si tratta di fallimenti
Ogni volta che ci accade qualcosa di spiacevole – e ci accade spesso, ogni giorno – la mente si affretta a decodificare l’esperienza e applicare una bella etichetta: non mi piace, non va bene, non è giusto, è sbagliato.
Lo facciamo così spesso e così d’abitudine, che non ce ne rendiamo nemmeno conto (a meno che non siamo sul sentiero della Mindfulness o consapevolezza!).
Ci svegliamo la mattina e siamo già sul piede di guerra: cosa non va oggi? Cosa manca? Cosa dovrò sopportare mio malgrado che detesto? Cosa dovrò aggiustare con grande fatica?
Questo ci spinge a vivere una vita di cattivo umore o come se fossimo sempre in trincea, salvo brevi momenti di sollievo, quando ci accade qualcosa che soddisfa le nostre aspettative.
Quando qualcuno ci dà ragione, quando non troviamo fila al supermercato o riceviamo una bella notizia; quando non fa troppo caldo, né troppo freddo; quando sono riuscita ad evitare una seccatura, quando mi lasciano in pace, insomma quando qualcosa o qualcuno coincide con i miei desideri o corrisponde alle mie aspettative. Insomma, quando la vita mi accontenta.
Poi ci diciamo: certo ma se io non faccio così, se non spingo per raggiungere un obiettivo e accetto tutto quello che mi accade, non arriverò mai da nessuna parte, non otterrò mai nulla!
Per di più la nostra cultura contemporanea ci spinge ad essere competitivi (= mors tua vita mea), all’individualismo spinto, come se le possibilità fossero limitate e come se non fossimo in realtà tutti interdipendenti gli uni dagli altri.
D’accordo – mi sento dire – ma almeno bisogna ammettere che sono le passioni, i desideri che ci spingono a realizzare i nostri obiettivi. Dovremmo rinunciarci e accettare le cose come sono senza lottare?
Ma allora dovrei rinunciare al tentativo?
Ovviamente no!
La Mindfulness (così come tanti altri approcci alla consapevolezza che vengono da Oriente) non ci spinge alla passività! Accettare non significa rinunciare ai nostri sogni o congelare le nostre aspirazioni in nome di un atteggiamento rassegnato. Non vuol dire rinunciare a combattere contro le ingiustizie.
Se mai la consapevolezza ci aiuta in primo luogo a individuare cosa davvero ci sta a cuore, semplificando ed eliminando tutto l’apparato di falsi bisogni e atteggiamenti difensivi che ci portiamo dietro da tempo, che il più delle volte ci intralciano, piuttosto che arricchirci davvero.
In secondo luogo la consapevolezza ci chiede – ogni volta che ci accorgiamo – di accogliere il modo in cui ci sentiamo rispetto a quello che ci sta accadendo, e non di accogliere passivamente quello che ci accade in sé.
La Mindfulness ci allena all’accettazione radicale e amorevole DEL SENTIRE che sorge in relazione a ciò che ci accade. Un sentire che è solo nostro, totalmente soggettivo, che certo ci rende vulnerabili (e per questo, non ci piace), che risveglia vecchie ferite, che ci espone e ci fa sentire bloccati.
Se riusciamo a fare questo, siamo anche in grado di ritrovare un equilibrio e un certo grado di serenità che ci aiutano poi ad affrontare i fatti in sé, le esperienze in sé – che possono essere ingiuste, non etiche, difficili o pericolose. O ci sostengono quando vogliamo realizzare i nostri obiettivi – ora con un atteggiamento più elastico e positivo.
Un mito edificante
Tra i tanti miti di casa nostra, ce n’è uno che forse ci può suggerire un atteggiamento di questo tipo, ed è il mito di Ercole/Eracle e l’Idra.
Siamo tanto abituati ad affrontare l’ombra, il mostro, con l’atteggiamento di San Giorgio che stana il drago e lo ferisce a morte.
Ma forse invece potremmo prendere spunto da una delle versioni del mito di Ercole, che quando è chiamato ad affrontare l’Idra (ennesimo mostro a tante teste che assomiglia molto alle nostre mille difficoltà quotidiane) accetta il consiglio di Chirone, medico e saggio centauro:
1. lotta contro l’Idra sotto la luce del sole
2. se hai bisogno di aiuto, chiedilo
3. se occorre inginocchiarsi, inginocchiati
4. preparati a perdere, a fallire – solo così vincerai
E così fa Ercole: chiede aiuto a Iolao, si inginocchia davanti al mostro (e solo così riesce ad individuare la testa centrale, l’unica che una volta colpita non si riproduce) e si prepara ad un certo punto a soccombere, quando sembra che tutto sia inutile.
La Mindfulness non ci suggerisce di rinunciare ad affrontare l’Idra (di accettare tutto passivamente o di rinunciare alle nostre passioni), ma ci aiuta ad affrontarla con un atteggiamento diverso, più disponibile alla conoscenza diretta, alla luce del sole – e ci esorta ad accorgerci che quando siamo attaccati al risultato, arrabbiati perché non lo otteniamo o incapaci di chiedere aiuto, non facciamo altro che rinforzare il mostro.
Ed è solo quando accettiamo il modo in cui ci sentiamo, proprio ora, che è possibile partire per un viaggio di incontro e trasformazione.
2 Maggio 2020 at 8:11
Ciao Elisa,
quella che tocchi in questo articolo credo che sia la questione centrale del nostro modo di essere e di stare al mondo.
Credo che la diffusa condizione nevrotica nella quale siamo tutti più o meno immersi e quella difficoltà a vivere che ci accompagna in sottofondo siano l’inevitabile conseguenza del nostro grado di identificazione con il pensiero e con le emozioni.
Ignoriamo spesso che il pensiero sia un prodotto automatico e pseudocasuale della mente e che le emozioni, se non contrastate, siano un fenomeno transitorio che nasce, raggiunge un picco e poi decresce fino a spegnersi.
La mancanza di conoscenza di quale siano i nostri meccanismi di funzionamento ci fa invece credere che i pensieri e le emozioni siano la realtà e la verità.
Questa mancanza di consapevolezza ci fa poi confondere due livelli che sono ben distinti: le cose che accadono e il nostro stato emotivo.
Questa confusione ci porta a pensare che il nostro REAGIRE sia l’unica possibilità di AGIRE e che se NON REAGIAMO diventiamo PASSIVI e RINUNCIATARI.
Questa diffusa falsa credenza è quella che ci tiene inchiodati alla nostra sofferenza nevrotica.
Per il condizionamento culturale egoico (iniziato migliaia di anni fa) e a cui siamo esposti, noi siamo portati ad agire per “risolvere” spinti da RIFIUTO ed AVVERSIONE.
Non prendiamo neanche in considerazione che ci può essere un’altra via: quella dello STARE IN PRESENZA.
E’ difficile parlare dello STARE IN PRESENZA e questo sia perché è un concetto pressoché assente nella nostra cultura e soprattutto PERCHÉ NON È UN CONCETTO!
La capacità di stare in presenza è una qualità che va coltivata e che non può essere spiegata.
E’ qualcosa che ci riesce difficile perché non è un “risultato da raggiungere” ma è un diverso modo di essere; un modo di essere che ci porta più vicino alla nostra più profonda interiorità.
Ci opponiamo a prendere familiarità con lo STARE IN PRESENZA in primo luogo per l’erronea obiezione culturale che ce lo fa confondere con la “passività” e la “rinuncia”. Non comprendiamo invece che è proprio dallo STARE IN PRESENZA che derivano CHIARA VISIONE, FORZA E CREATIVITÀ.
Ma ci opponiamo anche per un motivo più severo: lo STARE IN PRESENZA ci porta in contatto con le nostre paure più profonde e noi non siamo disposti a questo.
“Noi preferiamo rimanere in superficie, anche se la superficie può essere più infernale delle profondità; però possiamo sempre pensare che è colpa degli altri. Meglio un inferno esterno di cui lamentarci che attraversare l’inferno proprio, che è “tutto mio” e da cui nessuno mi può tirare fuori se io non decido di penetrarlo, di attraversarlo, di conoscerlo ai costi necessari…”
(Marco Guzzi)
E’ soltanto la nostra apertura a questo SENTIRE che ci permetterà prima di entrare in contatto con le nostre fragilità e le nostre vulnerabilità e poi di attraversarle per portarci verso una graduale maggiore libertà, congruenza, creatività e gioia.
3 Maggio 2020 at 16:19
ciao Pas, grazie per il tuo commento, utile a chiarire ancora di più e meglio il post.
Hai ragione, stare “in presenza” di ciò che ci accade, specialmente delle esperienze difficili è un modo di essere che nessuno ci insegna: né la nostra cultura, né la società, né tantomeno la scuola.
E ci tocca provare ad impararlo da grandi, quando abbiamo già fatto tanto che va in senso contrario.
Un abbraccio,
e.
4 Maggio 2020 at 8:24
🙂