Quand’è che le cose cambiano?
Questo post comincia con una domanda, che mi viene fatta spesso durante il corso intensivo di Mindfulness MBSR, in genere all’inizio del percorso, dopo i primi due o tre incontri: “Quand’è che starò meglio? Quand’è che le cose cambiano? Quando avrò dei risultati?”.
Questa domanda, sacrosanta, testimonia la nostra abitudine, inerente al nostro essere umani, in questo secolo veloce di botta e risposta, a voler vedere il risultato. Abbiamo bisogno di conferme, di sentirci tranquilli, di una consolazione. Abbiamo bisogno di risultati, possibilmente subito.
Il fatto è che tutto è così incerto nella vita, o magari è che penso e ripenso ad un problema che mi tormenta in questo periodo (di salute, di lavoro, di relazione) e non riesco a decidermi, non vedo una via d’uscita davvero convincente. Faccio la lista dei pro e dei contro e poi tiro una riga sotto, per vedere, nero su bianco, qual’è la soluzione giusta.
Da che parte devo muovermi? A destra o a sinistra? Devo chiudere con tal dei tali? Devo cominciare? Devo voltare pagina o aspettare e sopportare ancora un po’? È normale che sia così o c’è qualcosa che non va con me? Come faccio a cambiarmi, a diventare più brava/saggia/felice/sana?
Lo voglio sapere subito, perché stare ad aspettare è come friggere nell’olio bollente dell’incertezza.
Ma con la Mindfulness ci viene chiesto di “lasciar andare il risultato”
Ma invece, quando facciamo pratica di conoscenza di noi stessi con la Mindfulness, ci viene chiesto di non cercare il risultato.
È un caro vecchio principio noto in tutto il mondo filosofico indiano; per chi ha dimestichezza per esempio con uno dei testi fondamentali della filosofia indiana, la Bhagavadgita, sa che il protagonista Arjuna, che combatte sul suo carro contro le armate dei cugini in una guerra epica, affronta questo nodo fondamentale, che viene sciolto dal discorso di Krishna, nei panni dell’auriga del suo carro.
Come si affrontano le cose che occorre affrontare, anche quando implicano sofferenza (nel suo caso, era la sofferenza di dover combattere contro parenti e amici)?
Come si fa a guardare in faccia a questo dilemma senza soccombere?
Krishna risponde ad Arjuna che l’unico modo è quello di vivere l’esperienza lasciando andare il risultato; e rimanendo concentrati sull’esperienza stessa.
Allo stesso modo, quando facciamo pratica di consapevolezza, ci viene suggerito di non farlo con uno scopo o una meta specifica; questo molto probabilmente compromette il risultato e ci riconduce in uno stato in cui ci aggrappiamo alla speranza di cambiare le cose così come ci sembra che dovrebbero essere. E molto spesso scopriamo, strada facendo, che le intenzioni che ci hanno mosso ad iniziare la pratica possono cambiare, tutto è estremamente fluido e dinamico.
Se per esempio inizio a meditare per sentirmi meno stressata e più calma (obiettivo del tutto comprensibile!), l’eccessivo attaccamento al risultato, la sola aspettativa di raggiungere questo obiettivo può costituire un ostacolo a rilassarmi con quello che c’è, persino con lo stress. Come scrive Jon Kabat-Zinn, “Con pazienza e una pratica regolare, il movimento verso i risultati avverrà da sé. Esso sarà uno sviluppo spontaneo: tu ti limiti a fargli spazio e a invitarlo dentro di te”.
Chi cerca non trova, chi non cerca è trovato (Franz Kafka)
Del resto, tutto quello che secondo me ha più valore, come l’amore, la creatività, la visione, la saggezza, tutte queste cose ci arrivano quando non le cerchiamo. La comprensione di una situazione, una buona soluzione ad un problema, la capacità di creare qualcosa che prima non c’era e così via, spesso arrivano nei momenti in cui non siamo concentrati su quell’argomento, quando non ci stiamo pensando, ma lasciamo la mente libera di trovare da sé la sua strada.
Succede la stessa cosa quando siamo seduti sul cuscino: ci concentriamo solo sul respiro o sulle sensazioni corporee, senza pretendere che succeda altro se non il nostro stare attenti. Poi perdiamo la concentrazione perché veniamo distratti dai nostri stessi pensieri, ce ne accorgiamo, torniamo al respiro. Così mille volte.
Ma poi, ad un certo punto arriva un po’ di chiarezza; ogni tanto qualcosa fa clic dentro di noi – e a volte anche un piccolissimo clic è una grande conquista …
Funziona proprio così: tu ti fai la domanda, la tieni al caldo, sotto la camicia (come dice la Candiani in un suo libro) e poi permetti all’Universo di darti una risposta. Senza pretendere di averla subito e senza provare ad anticiparla. Arriva quando arriva, e qualunque cosa arriva – anche una apparente assenza di risposta – è una risposta, se siamo disponibili a interpretare il linguaggio dei segni.
Soprattutto quando siamo in balia della tempesta – quando ci sentiamo naufraghi sulla zattera come Pi, il protagonista di Vita di Pi, che aveva fatto naufragio andando alla deriva nell’oceano su una scialuppa in compagnia di una tigre – permettiamoci di viverla l’esperienza del naufragio. E agli animali, il nostro zoo interiore (tigri, scimmie, rettilii e così via), di ammaestrarci. Di insegnarci.
3 Marzo 2019 at 18:48
mi piace molto questa idea di non essere schiava del risultato che deve arrivare e non arriva….
di solito la vita ci chiede ad ogni passo di fornire risultati, e noi stessi pretendiamo risultati da ogni azione e li pretendiamo da noi stessi più ancora che dagli altri, per cui mi da un senso di granquillità questo approccio.
Il dubbio che mi viene deriva dal contrasto tra questo non attendere un risultato nella pratica meditativa e continuare invece a perseguire con forte intenzione i risultati che voglio raggiungere nel lavoro, di questo, in questo momento della mia vita non posso proprio fare a meno….
3 Marzo 2019 at 21:54
Ilaria cara, puoi tentare di tenere separate le due cose: pratica di Mindfulness e lavoro, ma credo che siano la stessa cosa, nel senso che sono entrambe espressioni del nostro approccio al “fare” nella vita.
Anche nella Mindfulness ci viene chiesto di concentrarci e di continuare a farlo ogni volta che ci distraiamo; e questo se vuoi è uno sforzo (un retto sforzo direbbero i buddhisti, uno sforzo entusiastico, fatto con amore e passione per la pratica) necessario per allenarci alla consapevolezza. In questo assomiglia forse allo sforzo e la passione che mettiamo nel nostro lavoro.
Quello che ci viene chiesto di lasciar andare è il risultato. Nel senso che non possiamo davvero sapere quale tipo di risultato otterremo.
Buono? Cattivo? Giusto? Sbagliato? Chi può dire cosa sia giusto o sbagliato ottenere, soprattutto se lo guardiamo in un’ottica più ampia e nel lungo periodo?
C’è una storiella proprio su questo argomento, magari ve la racconto giovedì durante l’MBSR 🙂
Ad ogni modo, grazie, è una questione molto interessante quella che tu proponi, piena di spunti su cui riflettere.
4 Marzo 2019 at 8:06
Lasciare il risultato
Mi piace molto questo insegnamento.
Non mi arriva come nn avere obiettivi, ma più come nn arrovellarsi sugli obiettivi, essere presa degli obiettivi.
Lo interpreto come un suggerimento anconcentrarsi sulle azioni e sui compiti che sono da svolgere per arrivare all obbiettivo: step by step, giorno per giorno……..
Come dovrebbe essere sempre : adesso, ora faccio questo, perché ci credo e mi ci impegno..poi si vedrà
Ma quanto sono brava nella teoria 🙂
Com è che nella pratica sono sulla zattera in tempesta !?!?
Bello comunque aprire gli occhi e vedere che si può … e prima o poi “io può “
Grazie grazie grazie
4 Marzo 2019 at 10:46
ciao Rita! non sei sulla zattera in tempesta – o ci sei sempre meno. Il solo fatto che scrivi quello che hai scritto significa che sei aperta alla tempesta (e la vedi) e questo ti dà (certo non sempre e non di sicuro) la capacità di calmarla e di starci.
E poi, remata dopo remata, onda dopo onda, giorno dopo giorno, si spera di riscoprire Presenza e Gentilezza per la grande avventura 🙂
Grazie a te!