Mi è capitato, in questi ultimi incontri di Mindfulness con le persone che seguono i miei corsi, di parlare di solitudine. È un argomento pieno di spunti di riflessione, e credo ci riguardi tutti, indipendentemente dal fatto che viviamo soli o in famiglia.
Una condizione di esilio
La solitudine è spesso intesa come una condizione triste: mi sento solo, isolato, lontano dagli altri, in esilio. E chi di noi ama stare da solo, potrebbe sentirsi “sbagliato” a voler stare per conto suo. Come se amare la solitudine fosse una malattia.
Che evidentemente scatena la fobia della solitudine in chi ci sta di fronte, come se fosse contagiosa… in effetti penso che essere estroversi e particolarmente ‘sociali’ sia molto più accettato e premiante nella nostra realtà sociale.
Credo però che ci sia molta differenza tra la solitudine e il sentirsi soli.
A volte ci sentiamo soli e tagliati fuori anche quando siamo insieme agli altri: forse a qualcuno di voi sarà successo di sentirsi isolato/a in compagnia di certe persone o in determinati ambienti sociali. Succede quando non troviamo punti di contatto con chi ci sta di fronte o quando ci chiudiamo – più o meno consapevolmente – di fronte ad una esperienza che tocca qualche nervo scoperto o ci fa sentire disorientati e senza punti di riferimento.
A volte ci sentiamo soli perché le cose non vanno come avevamo sperato e ci prende uno stato d’animo in cui ci sentiamo senza speranza, come se dal momento che adesso le cose vanno male, vuol dire che andranno sempre “male” e non c’è nessuno che lo possa capire veramente.
Anche il silenzio, che pratichiamo per esempio durante i ritiri di meditazione, oppure nella giornata intensiva del corso MBSR, in qualche modo ci spinge sull’orlo della solitudine in cui, a detta di diversi partecipanti al corso, non è così facile stare e sentirsi a proprio agio. Nel silenzio tagliamo i ponti con i soliti meccanismi di comportamento che ci spingono a riempire e a spiegare, per smettere di farlo (almeno verso l’esterno, ma spesso il monologo interiore continua imperterrito) e fare i conti con la rinuncia. Com’è quando rinuncio a riempire? Com’è quando non posso spiegare? Che sensazioni provo, che emozioni scatena il silenzio?
Di questo argomento parla anche Pema Chodron, quando elenca sei tipi di solitudine; una solitudine che lei non vede più come assenza ed esilio, ma finalmente come opportunità per vedere e comprendere i punti dove siamo bloccati e per cominciare a volerci bene proprio da lì.
Quando ci sentiamo bloccati e dunque soli, alla deriva, quello che ci viene automatico fare è muoverci immediatamente in un senso o nell’altro; appena arriva questo brutto senso di incompletezza vogliamo aggiustarlo immediatamente, perché ci sembra sbagliato stare male, ci sembra di non meritarcelo.
“È un po’ come quando meditiamo e risistemiamo le gambe. Dato che ci fanno male a furia di stare seduti a gambe incrociate, cambiamo posizione. E pensiamo: “Oh! Che sollievo!”. Ma pochi minuti dopo vogliamo cambiare di nuovo posizione. Continuiamo a spostarci cercando il piacere, cercando la comodità, e la soddisfazione che otteniamo dura proprio poco” (Pema Chodron, Se il mondo ti crolla addosso, Feltrinelli)
Quando invece abbiamo il coraggio di non cambiare posizione, di non cercare di evitare la scomodità a tutti i costi (il coraggio di non prendere la pastiglia al primo accenno di disagio, di smettere di volere sempre qualcos’altro, di rinunciare a cambiare continuamente canale) stiamo smantellando, strato dopo strato, un sistema di comportamento che non è solo nostro personale, è dell’intera umanità. Per questo ci risulta difficile!
La modalità comune infatti è quella di cercare continuamente soluzioni. Questo non è un male di per sé, solo che diventiamo talmente affamati e schiavi delle soluzioni, che la soluzione stessa diventa il problema.
“E anche se corriamo a cento all’ora dall’altra parte del continente per scappare dall’ostacolo, ce lo ritroviamo lì, lo stesso problema ad aspettarci all’arrivo. Continua a ripresentarsi con nuovi nomi, nuove forme, nuove manifestazioni, finché non impariamo quel che ha da insegnarci su dove ci stiamo separando dalla realtà, su come ci stiamo tirando indietro anziché aprirci (…)”.
Sei modi per stare in solitudine
Ecco allora sei modi di smettere di correre a cento all’ora dall’altra parte del continente, sei modi in cui possiamo deporre le armi e rinunciare alla “soluzione” per riposare con quella che viene definita la “fresca solitudine”, una solitudine rilassante che ribalta completamente i nostri soliti schemi di comportamento.
- Meno desiderio: ovvero la capacità di essere soli senza soluzioni, quando invece vorremmo disperatamente che le cose fossero diverse. Quando cioè accettiamo di non dissociarci da quello che ci accade, ci facciamo sedurre sempre meno dal film che proiettiamo sull’esperienza e cominciamo a desiderare di meno che le cose siano diverse da come sono.
- Appagamento: che è un tipo di solitudine complementare alla prima, ovvero la capacità di essere contenti di ciò che ci accade. Possiamo cioè essere soli ed esserne appagati, anche se le emozioni che proviamo non sono necessariamente piacevoli. Posso allora stare in questa posizione senza muovermi di un millimetro, anche se tutto in me vorrebbe scappare o forzare la mano?
- Evitare attività inutili: quando siamo soli in modo bruciante, di solito ci rivolgiamo a un milione di attività che ci tengono occupati e che ci impediscono di stare nella cruda esperienza. I social sono il non plus ultra per questo, ma anche il lavoro, lo shopping, i pettegolezzi, e qualsiasi attività su cui ci buttiamo compulsivamente. Non potremmo invece fermarci e accettare di rimanere soli con noi stessi senza aggrapparci a qualcosa che ci salvi la giornata?
- Disciplina assoluta: che è quello che facciamo ogni volta che, durante la pratica di meditazione, abbiamo il coraggio di tornare al respiro, nonostante i film che si proiettano sullo schermo della mente. Sediamo e basta, e torniamo a farlo ogni volta che occorre, per stare con la solitudine che proviamo, senza provare a mitigarla o a evitarla. Per affrontare l’ambiguità della nostra condizione senza filtri.
- Non vagare nel mondo del desiderio: cioè non cercare alternative, come i like su facebook, il cibo, il fumo, lo shopping o il senso di “essere spirituale” a tutti i costi.
- Non cercare la sicurezza che viene dal rimuginare su noi stessi: che è quel che accade quando ci hanno tolto la terra sotto i piedi; e allora noi cerchiamo di spiegarcelo, di dare delle colpe, di ristabilire l’ordine, di avere il controllo. Anche questi pensieri non sono altro che pensieri (anche se ci sembra che ci aiutino a spiegarci la nostra esperienza). Etichettarli come “pensieri” e lasciare che si dissolvano equivale a smontare il teatrino melodrammatico che mettiamo in piedi quando siamo in difficoltà.
La solitudine non è un problema, lo diventa quando ci affanniamo a cercare una soluzione. È anzi una condizione di spazio che ci permette di guardarci e guardare alla nostra esperienza con trasparenza e compassione.
“Se una mattina vi alzaste e dal nulla spuntasse lo sconforto dell’alienazione e della solitudine, riuscireste a trasformarlo in un’occasione d’oro? Invece di tormentarvi o sentire che sta succedendo qualcosa di terribilmente sbagliato, proprio in quel momento di tristezza e di nostalgia, riuscireste a rilassarvi e a toccare lo spazio infinito del cuore? La prossima volta che vi capita, provateci”.
10 Dicembre 2019 at 9:35
Grazie, Elisa, una coperta calda le tue parole. Ho condiviso con alcune persone care le parole di Lao Tsu. Sono rimasta anch’io sorpresa di quante, di prima mattina, mi abbiano risposto.
????????????
10 Dicembre 2019 at 21:43
Ciao Anna Maria, grazie grazie grazie delle tue parole ❤️ C’è bisogno di solitudine, quella fresca e aperta…