Iddu lo chiamano gli isolani. Ma qualcuno mette in dubbio che sia maschio. Qualcuno dice che il vulcano sia una manifestazione di Madre Terra, e che quindi abbia le sue stesse qualità materne.
Ma ancora non so cosa aspettarmi, quando approdiamo, alle sei di mattina con una grande nave da Napoli, notiamo solo uno sbuffo grigio sulla sommità, che ci dà il benvenuto. Grigio, azzurro, rosa pallido dell’alba sul mare. Non sembra così prepotente questo vulcano, penso. E poi mi preparo per questa incredibile vacanza di mindfulness, strappata a un giugno splendente di sole.
Approdati in capo al mondo
Ci tuffiamo in questa isola di terra, mare, fuoco e vento; di limoni e bouganville, di fichi d’india e agavi. Di muri abbaglianti e vicoli stretti. Di milioni di stelle la notte.
Non so se una settimana sia tanto o poco per innamorarsi, fatto sta che mi sembra quasi inevitabile perdere la testa per Stromboli, per quest’isola tutta nera, con una bocca infuocata in cima. È un posto magico, si sente la sua energia strana ed estrema; e devono averla pensata così tanti altri prima di me, dato che la comunità di residenti è formata da un numero discreto di “milanesi” oltreché molti europei d’oltralpe, primi fra tutti i tedeschi.
Parlando con loro viene fuori che si sono trasferiti qui parecchi anni fa, chi in cerca di un luogo sex-drugs-and-rock-‘n-roll (Ginostra, dall’altra parte dell’isola era un piccolo paese un po’ hippie all’epoca), chi rimasto folgorato dalla potenza della natura. Un manto di pietre e sabbia nera, alberi di fiori e spine, fichi dolcissimi, il mare abbagliante e sopra a tutto, il vulcano che tuona molte volte al giorno.
La salita alle bocche di fuoco
Salire sul vulcano è un’esperienza incredibile. Sono 900 metri di salita, tra pietre e sabbia, e di nuovo una natura incredibile. Sembra di camminare su Marte!
Il trekking alle bocche del vulcano parte nel tardo pomeriggio e dura 3 ore circa, tutti incolonnati su per il zig-zag del sentiero che si fa largo tra felci e ginestre. Si suda e si fatica. Ogni tanto ci si ferma, perché il paesaggio toglie il fiato: come in cima ad uno scivolo di lava, lo sguardo rotola giù fino al mare profondo, dove le pendici del vulcano si inabissano per altri 2000 metri.
Arrivati nei pressi della cima fa un gran freddo: il vento e le nuvole corrono veloci, e il rumore profondo della pancia del vulcano è sempre più vicino. Occorre coprirsi e indossare il caschetto. E avvicinarsi con grande curiosità – e un po’ di paura – al limite estremo dello strapiombo che precipita verso le cinque bocche aperte.
Mi siedo e rimango in contemplazione. Le gambe tremano, le mani congelate, il resto del corpo percorso da ondate di energia.
Lo spettacolo è ipnotico e mi fa sentire davvero piccola e insignificante. Un filo di paglia, una formica. Di quelle che ho incrociato e scavalcato mille volte nella sabbia, sul sentiero mentre salivo. Arrancavano le formiche, in fila anche loro, affaccendate, inconsapevoli.
E ora che sono in cima, mi fermo a guardare la creazione di cui faccio parte, senza saperlo, senza accorgermene, ogni giorno che sono su questa terra.
È potente, io partecipo di questa potenza, siamo una cosa sola. Non ho voce in capitolo, eppure faccio la differenza. Che io stia seduta lì o no, al vulcano non importa, eppure è la mia piccola voce che lo racconta a fare la differenza.
Ogni tanto un boato e una colonna di fumo e cenere, seguiti da lava e lapilli mi fanno sobbalzare. Wow, questa era forte!
Stiamo lì, a guardare la natura che ribolle, sullo sfondo di un sole che si immerge nel mare cobalto, cupo e profondo.
E poi, quando ormai è buio, di nuovo tutti in fila scendiamo per la vecchia sciara del fuoco, dove un tempo rotolavano le pietre di lava vomitate fuori dal vulcano.
È tutto sabbia nera e polvere, e noi come una scia di lucciole, ci lasciamo scivolare sulla sabbia, nel buio, verso la manciata di puntini luccicanti che si vedono 900 metri più sotto.
Pattiniamo verso il basso, nell’oscurità, affondando nella sabbia calda, nel silenzio assoluto, accompagnati solo dai boati di Iddu, sopra di noi…
Il senso di un luogo estremo
Stromboli è un’esperienza potente, che mi riconnette con il mistero della mia preziosa vita umana su questa terra, vulnerabile e al tempo stesso vastissima.
Mi ricorda quanto sono piccola e fragile, e anche quanto sia bello sentirsi parte di tutto questo, senza via di scampo.
I suoi silenzi – i silenzi di Ginostra, dall’altra parte dell’isola, il paese isolato e irraggiungibile se non via mare – e il buio della notte senza illuminazione artificiale modificano la percezione del tempo e dello spazio.
Si ritorna al piccolo, si fa attenzione al poco, si distinguono i suoni (un gabbiano, una finestra che sbatte, un motorino che urla in lontananza, il vento tra le bouganville) e i tratti del viso di chi incontri per strada, camminando, diventano familiari. “L’isola è un antidoto alla dispersione emotiva – scrive Lidia Ravera in A Stromboli – È piccola. È disabitata.Vedi e rivedi le stesse facce. La ripetizione di costringe ad approfondire.”
Ritorni a misurare i passi, ad apprezzare ogni singolo metro di strada. I colori delle case sono selvaggi, il bianco acceca, il nero è luminoso.
Non puoi distrarti: tutto è veramente vero, reale e unico.
Il mare lo delimita e lo definisce, questa è la mia vita, assieme a questo vulcano e a queste ginestre fiorite.
Il mare si infrange sugli scogli, accarezza il nero della sabbia lavica che si incolla ai piedi: piccoli granelli bui, sassi gialli di zolfo, ricordi dei molti parti della pancia del vulcano.
Sono lontana dalla mia solita me stessa e al tempo stesso finalmente più vicina.
La solitudine mi costringe ad accettare ciò che c’è, ma ciò che c’è è strabiliante. Devo restare qui e accogliere la bellezza sconfinata che vedo, assieme al continuo ruggito di ciò che è più grande di me.
Infinitamente grande e infinitamente piccolo, qui si riconciliano.
Per l’anno prossimo abbiamo in preparazione un viaggio nella terra di Iddu, il vulcano, sotto forma di ritiro di Mindfulness. Saranno giorni dedicati all’ascolto, all’osservazione e alla pratica di Mindfulness. Ma anche al cammino e all’esplorazione. Immersi nel silenzio, tra gli alberi di limoni e le agavi che fioriscono di fronte al mare. Più avanti arriveranno i particolari…
28 Luglio 2017 at 15:25
Cara Elisa… un incanto. La potenza dei vulcani, quell’energia (che io percepivo femmina, ma non importa darle un genere, c’è ed è innegabile) io la sentii in un lontano viaggio in Indonesia, quando al tramonto dalla riva del mare comparivano queste affascinanti creature, in grado di distruggere ma anche conservare. Il vulcano è un simbolo complesso, unisce Oriente e Occidente. Incanto e paura, bellezza…
Bella la tua esperienza, e il modo in cui trasmetti sensazioni e riflessioni. Mi pare quasi di ascoltare una lezione a cielo aperto sullo smartphone. Ecco, a volte la tecnologia porta condivisione utile e sana, apre orizzonti piccoli e grandi.
E poi che pensiero quello di Lidia Ravera sulla ripetizione che costringe ad approfondire. Qui dovresti farci un altro post. Un caro saluto. Clara
30 Luglio 2017 at 21:27
ciao cara Clara, grazie di esserti fermata un po’ con me nella quiet room 😉
Sì, sentire un vulcano, sentirlo respirare, è un’esperienza incredibile! Spero di poterci tornare molto presto, chissà?!
E hai ragione, il tema che si intuisce nella frase di Lidia Ravera è stuzzicante… da un lato la ripetizione è rassicurante, dall’altro può essere noiosa. Difficile rimanere freschi di fronte a qualcosa che abbiamo già visto, ma se riusciamo a rimanere curiosi, possiamo approfondire quello che sperimentiamo… sì, ci si può scrivere un post!
un abbraccio!!